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Domenica 4 Maggio ore 18:00 il Cavern Club presenta

 

I Cancelli del cielo di Michael Cimino

 

Recensione di Stefano Lorusso


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Har­vard 1870, due amici della clas­se di­ri­gen­te con­clu­do­no gli studi uni­ver­si­ta­ri e la loro gio­vi­nez­za per pre­pa­rar­si alla vita adul­ta. John­son Coun­try, Wyo­ming, 1890. Lo sce­rif­fo James Ave­rill, uno dei lau­rea­ti ini­zia­li, lotta al fian­co dei con­ta­di­ni im­mi­gra­ti del­l'Eu­ro­pa del­l'E­st ac­cu­sa­ti di furto e mi­nac­cia­ti di ster­mi­nio da parte di mer­ce­na­ri as­sol­da­ti dai po­ten­ti al­le­va­to­ri di be­stia­me ap­pog­gia­ti dal go­ver­no. Tra i kil­ler c'è un certo Nate D. Cham­pion, de­ci­so a spo­sa­re Ella, la pro­sti­tu­ta di cui anche il suo amico Ave­rill è in­na­mo­ra­to.

 

Pro­vo­ca una certa ver­ti­gi­ne emo­ti­va l'ap­pa­ri­zio­ne quasi me­ta­fi­si­ca, al­l'i­ni­zio di Hea­ven's Gate di Mi­cheal Ci­mi­no, del logo bian­co in campo nero della Uni­ted Ar­tists. Un epi­taf­fio. Una pie­tra tom­ba­le. Il canto del cigno di una delle più glo­rio­se case di pro­du­zio­ne del­l'in­du­stria ci­ne­ma­to­gra­fi­ca ame­ri­ca­na, fi­glia del­l'u­nio­ne di in­ten­ti di gente come Dou­glas Fair­banks, Char­lie Cha­plin e Mary Pick­ford. Fal­li­ta (o fatta fal­li­re) a causa dei nu­me­ri esa­ge­ra­ti e spro­po­si­ta­ti le­ga­ti a que­sto film.

 

Film "to­ta­le" e non-de­li­mi­ta­bi­le già a par­ti­re dal ti­to­lo. Lar­ger than life, lar­ger than ci­ne­ma. 220 ore ori­gi­na­rie di gi­ra­to in chi­lo­me­tri di pel­li­co­la, 44 mi­lio­ni di dol­la­ri spesi, 1.5 mi­lio­ni di dol­la­ri in­cas­sa­ti, de­ci­ne e de­ci­ne di re­cen­sio­ni e com­men­ti di­sa­stro­si in tutto il mondo ("il peg­gior film mai rea­liz­za­to" se­con­do qual­che dis­sen­na­to os­ser­va­to­re), cen­ti­na­ia di com­par­se, gi­gan­te­sche sce­no­gra­fie ma­nia­cal­men­te smon­ta­te e ri­mon­ta­te, al­me­no 5 ver­sio­ni del film cir­co­la­te dal 1980 ad oggi. Una tra­ge­dia, un di­sa­stro eco­no­mi­co di pro­por­zio­ni im­ma­ni che spa­lan­cò i por­to­ni del­l'in­fer­no anche al gran­de Ci­mi­no, da al­lo­ra ostra­ciz­za­to da tutte le gran­di major hol­ly­woo­dia­ne e co­stret­to alla quasi com­ple­ta inat­ti­vi­tà.

 

La fine del­l'e­po­ca dei gros­si bud­get al ser­vi­zio della li­ber­tà espres­si­va più ar­di­ta, fi­du­cio­sa­men­te ri­ver­sa­ti da pro­dut­to­ri ma­gni­fi­ca­men­te scri­te­ria­ti nelle mani di re­gi­sti-au­to­ri vi­sio­na­ri come Cop­po­la, Spiel­berg, Ci­mi­no. Una con­clu­sio­ne. Nel segno della me­ra­vi­glia e dello stu­po­re. Forse la più gran­de di­chia­ra­zio­ne di fi­du­cia, del tutto smi­su­ra­ta, in­ge­nua­men­te folle e fol­le­men­te in­ge­nua (quin­di fal­li­men­ta­re), nei con­fron­ti delle po­ten­zia­li­tà espres­si­ve del mezzo ci­ne­ma­to­gra­fi­co mai ap­pro­da­ta sul gran­de scher­mo.

 

Pro­get­to enor­me, di co­los­sa­le por­ta­ta epica e di­men­sio­na­le. Tutto ap­pa­re di­la­ta­to, ra­re­fat­to, dis­si­pa­to nelle straor­di­na­rie 3 ore e 40 della ver­sio­ne di­rec­tor's cut dei Can­cel­li del Cielo. Una di­la­ta­zio­ne as­so­lu­ta e omo­ge­nea, una sorta di ma­gni­fi­co "spre­co" che in­ve­ste spazi e tempi, per­so­nag­gi e masse, lo­ca­tion e sin­tas­si del rac­con­to. A co­min­cia­re dal pae­sag­gio: mai così aper­to, ario­so, ampio. Me­mo­re della le­zio­ne di An­tho­ny Mann, di John Ford e di Sam Pec­kin­pah, Ci­mi­no in que­sto cre­pu­sco­la­re ul­ti­mo gran­de we­stern "senza fron­tie­ra" offre una mi­ra­bi­le le­zio­ne di uti­liz­zo dello spa­zio al­l'in­ter­no del­l'in­qua­dra­tu­ra. I film di Ci­mi­no sono sem­pre tutti con­ce­pi­ti e co­strui­ti in modo si­mi­le a gran­di co­reo­gra­fie, po­li­cro­mi pan­nel­li, ma­gni­lo­quen­ti com­po­si­zio­ni dal for­tis­si­mo gusto pit­to­ri­co in cui ogni corpo ani­ma­to e ina­ni­ma­to agi­sce in una sua pre­ci­sa col­lo­ca­zio­ne e trova il suo senso nel rap­por­to (sem­pre di­na­mi­co, vor­ti­co­so, rit­ma­to) con lo spa­zio.

 

In que­sto film a do­mi­na­re è il mo­ti­vo geo­me­tri­co del cer­chio, una "ana­ku­klo­sis" ci­cli­ca­men­te ri­pro­po­sta in al­me­no 3 mo­men­ti chia­ve del film. Sup­por­ta­to dalla fo­to­gra­fia osce­na­men­te bella di Vil­mos Zsig­mond, pa­sto­sa, pol­ve­ro­sa e do­mi­na­ta dalle to­na­li­tà del gial­lo e del­l'a­ran­cio, Hea­ven's gate è un film che bril­la in ogni se­quen­za di su­bli­me gran­dez­za este­ti­ca. Molti i re­fe­ren­ti pit­to­ri­ci, dalla forza pla­sti­ca del "Quar­to stato" di Pel­liz­za da Vol­pe­do, al fiam­meg­gia­re di co­lo­ri caldi dei Mac­chia­io­li, alla lu­mi­no­si­tà con­tra­sta­ta di Wil­liam Tur­ner. Im­ma­gi­ni di stra­ri­pan­te, ab­ba­ci­nan­te splen­do­re. Nar­ra­zio­ne scar­di­na­ta, mi­na­ta alle fon­da­men­ta da una vo­lon­tà di as­so­cia­zio­ne "fuori sin­cro­no", anar­chi­ca­men­te li­be­ra­ta dalle con­ven­zio­ni della sin­tas­si fil­mi­ca.

 

Se­quen­ze ac­co­sta­te se­con­do sug­ge­stio­ni emo­ti­ve in una sorta di rè­cher­che per im­ma­gi­ni, ampie el­lis­si (quel­le che da al­cu­ni cri­ti­ci miopi del­l'e­po­ca fu­ro­no de­fi­ni­ti "buchi della sce­neg­gia­tu­ra") che con­net­to­no po­de­ro­se scene di massa Tol­sto­ja­ne a mo­men­ti di de­li­ca­to in­ti­mi­smo. Sullo sfon­do una delle pa­gi­ne più atro­ci e in­fa­man­ti della sto­ria ame­ri­ca­na: la "John­son Coun­ty War", 1890, Wyo­ming. Pro­prie­ta­ri ter­rie­ri e al­le­va­to­ri ar­ma­ti a di­fe­sa del la­ti­fon­do e del pri­vi­le­gio con­tro l'a­van­za­ta pa­ci­fi­ca di im­mi­gra­ti eu­ro­pei sul suolo ame­ri­ca­no. Sogno a stel­le e stri­sce mac­chia­to di san­gue, con la ver­go­gno­sa be­ne­di­zio­ne del Pre­si­den­te e dei mem­bri del Se­na­to.

 

125 vit­ti­me in­no­cen­ti: im­mi­gra­ti po­lac­chi, te­de­schi, russi, un­ghe­re­si che re­cla­ma­va­no sol­tan­to un la­vo­ro e un pezzo di terra dove pro­va­re a met­te­re ra­di­ci. Pe­san­tis­si­ma, vio­len­ta de­nun­cia del mar­cio den­tro cui af­fon­da le sue scure pro­pag­gi­ni la sto­ria del Gran­de Paese Ame­ri­ca­no. Vi­sio­ne che non può non aver se­gna­to l'im­ma­gi­na­rio di molti gran­di re­gi­sti. Due le pel­li­co­le degli ul­ti­mi anni per­fet­ta­men­te "fi­glie" di que­sto film: Gangs of New York di Scor­se­se e There will be blood di Paul Tho­mas An­der­son.

 

Cast in­ve­ro­si­mi­le, as­sur­do, pro­ba­bil­men­te "sba­glia­to" in molti suoi com­po­nen­ti. Ep­pu­re di gran­dis­si­mo im­pat­to. Un roc­cio­so Kris Kri­tof­fer­son, sce­rif­fo di­sil­lu­so e so­li­ta­rio, espres­sio­ne di una up­per-class "tra­di­ta" in nome del­l'af­fla­to fi­lan­tro­pi­co nei con­fron­ti degli ul­ti­mi. John Hurt, suo com­pa­gno di uni­ver­si­tà, in­tel­let­tua­le suo mal­gra­do in­se­ri­to negli olia­ti in­gra­nag­gi della mac­chi­na al ser­vi­zio del po­te­re co­sti­tui­to. Chri­sto­pher Wal­ken, kil­ler sfug­gen­te e fe­li­no al soldo dei Land-ow­ners in­na­mo­ra­to della donna dello sce­rif­fo (una Isa­bel­le Hup­pert de­li­zio­sa­men­te fuori luogo). Jeff Brid­ges, Jo­se­ph Cot­ten, Mic­key Rour­ke, Brad Dou­rif.

 

Note di strug­gen­te ma­lin­co­nia com­po­ste da David Man­sfield. Po­de­ro­sa ric­chez­za di suoni, lin­gue, ru­mo­ri in quel­lo che lo stes­so Ci­mi­no pa­ra­dos­sal­men­te ha co­mun­que con ef­fi­ca­cia de­fi­ni­to un po­ten­zia­le "film muto", per­chè fon­da­to quasi per in­te­ro sulla in­tel­lig­gi­bi­li­tà uni­ver­sa­le di sguar­di e mo­vi­men­ti. Esta­si au­dio-vi­si­va, la­ce­ra­ta nel con­flit­to tra l'e­sat­tez­za im­pro­ro­ga­bi­le della "com­piu­tez­za" del­l'im­ma­gi­ne (nel mo­men­to in cui l'im­ma­gi­ne si fa pel­li­co­la, tra­sfor­man­do­si da idea in ma­te­ria) e l'ar­bi­trio della in­com­piu­tez­za, delle in­fi­ni­te va­ria­zio­ni, tagli, mon­tag­gi, ri-edi­zio­ni. In­fi­ni­ti film. In­fi­ni­te vi­sio­ni. Den­tro e oltre i Can­cel­li del cielo di Mi­cheal Ci­mi­no.